Scheda Evento
02/03/2019
Dalle:
18
Voragine
Sabato 2 marzo alle 18
In libreria sarà ospite Andrea Esposito scrittore ma anche libraio!
Voragine pubblicato con il Saggiatore nel 2017 è stato tra i finalisti per il Premio Calvino.
Voragine è un paesaggio metafisico, un’apocalisse di rottami, l’endoscheletro di un romanzo di formazione. È l’esordio di Andrea Esposito, un narratore che, come un Piranesi distopico, trascina le sue rovine in un futuro anteriore, prossimo e remoto; e, con frasi che risuonano come colpi di martello sulla lamiera, racconta una ferocia che è organismo e linguaggio, componendo la fiaba nera di un passato in macerie, di un millennio in disfacimento, di un presente orfano.

Marilena Votta che presenterà l'opera ci ha regalato questo piccolo assaggio di ciò che questa storia le ha smosso dentro...

Sei sott’acqua. In apnea. E ti manca il respiro. Poi ti abitui. A una nuova strana forma di luminosità oscura. Che confonde i contorni delle cose.
All’improvviso vivi in una specie di notte perenne, dove il giorno è solo un debole bagliore.
Sei catturato. Sei in un mondo dove la regola è la sopravvivenza. Nessuno ti ama. Nessuno si preoccupa per te. E nessuno comunica con te, neppure tuo padre, se non con gesti bruschi, violenti. Ti fa tutto male.
Questa è la storia di Giovanni. Lo conosciamo bambino che vive con il padre e il fratello e un cane in un deposito di sfasciacarrozze. Non ha una madre. Non sappiamo chi sia e che fine abbia fatto la madre. Sappiamo che il cane lo morde e il fratello muore.
Sappiamo che ci troviamo in un mondo che sembra post apocalittico, eppure ci lascia dentro un’inquietudine sottile, un filo di sudore gelido. Un senso di impotenza.
Giovanni vaga alla ricerca di cibo, inghiotte topi, e parla senza comunicare davvero con altri essere deliranti, aggressivi. Quando incontra qualcuno prova a raccontare di sé, del suo bisogno di essere visto, compreso, ma le parole degli altri lo soverchiano lo ingabbiano. Nessuno sta davvero parlando a nessuno, ma ognuno sta soltanto provando a rendere vivo il proprio senso di spaesamento. Ogni essere è fatto di una solitudine così estrema e crudele che non si può spiegare. Bisogna leggerla.
Sei in tunnel e non sai quanto durerà il buio. Non sembra possibile che ci sia mai stato un tempo in cui i bambini ridevano nei loro grembiuli a quadretti, in casa c’era profumo di torta e caffè fresco. Quel tempo in questo libro non è mai esistito, e noi non possiamo riaverlo perché non l’abbiamo mai vissuto.
Giovanni vaga senza meta, prende i rifiuti di un mondo putrefatto. Lavora come può lavorare uno schiavo sfruttato. Sta in coda e aspetta. Cenni. Segnali. Cibo. Coperte. Fuoco.
Il tempo è acqua dall’odore di fogna e di carcasse macerate nelle pozzanghere.
Questa è un’immagine impietosa di un mondo senza solidarietà.
Il suo incontro con un vecchio che ha perso la vista, ci può riportare nel mondo greco di Tiresia, ma il vecchio non è un profeta. Lui stesso è una specie di dannato dominato da un istinto incontrollabile, che lo spinge a uccidere senza motivo, se non una brama insaziabile di distruzione. Può essere una malattia. Può essere una conseguenza dell’aria avvelenata. Può essere il disvelarsi di una parte nascosta dell’umanità nuda. Quella che non ha cortesia o rispetto.
Può essere un luogo che esiste da qualche parte, e noi non lo sappiamo. Nelle nostre vite sicure.
Il linguaggio lirico, potente, disperato ma perfettamente calibrato ti ingoia e poi ti risputa fuori. Divorato. Divorato da un libro. E ne vorresti ancora.
“La donna lo guarda e la sua faccia è invasa da una rassegnazione severa. Nel buio le labbra sono scomparse. Poi dice: Stai zitto. E lui dice scandendo le parole e parlando più lentamente. Come se parlasse a un bambino che si sta per addormentare. Come se raccontasse a questo bambino i sogni che tra poco incontrerà: che senso ha stare zitti. Io ascolto questa voce e questa voce non è rivolta a me. Io ripeto. Tutto quello che faccio è ripetere. Ho un’altra storia.”
IL LIBRO
Ai margini di una città assediata, distrutta, che è ieri ed è domani, è qui ed è altrove, vive qualcuno di nome Giovanni. La sua casa è sulla terra incendiata dal gelo, in una periferia esangue, accasciata sul relitto di un acquedotto romano nei pressi di una ferrovia morta. È la casa in cui Giovanni vive e il padre e il fratello muoiono. È la casa da cui Giovanni viene cacciato e da dove comincia un vagabondaggio tra tunnel, ruderi infestati da cani, carcasse di automobili e uomini spaventati. Uomini dominati da un ferino istinto di sopravvivenza, da un’insensatezza che è costruzione e sfacelo. È destino. Una voce lo segue e lo spinge a testimoniare la fine di un mondo che non smette di finire, perché l’assedio della città c’è sempre stato. La voce atona di un profeta retroattivo, priva di pathos, che registra la violenza senza un sussulto ma rimane ipnotizzata dalla materia; che parla da un buio e da un vuoto, nomina, è interiore e rimbomba nell’ovunque. La voce che accompagna Giovanni fra le macerie mentre uomini ciechi si divorano l’un l’altro, lo scorta fra incubi di bambini in fuga e supermercati saccheggiati, in una regione più scura del sonno, senza fame e senza vita.